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Ecco perché è ancora necessario parlare di “Nosferatu”

(Ivan Branco, Pangea-New, 03/03/2025) – Perché parlare proprio dell’ultimo Nosferatu, uscito nelle sale italiane qualche mese fa’? Perché parlare poi di questo e non invece dell’omonimo uscito nel lontano e (pare) vecchio 1922? Ma perché, soprattutto, tornare a parlare di quelle che possono sembrare semplici favole e leggende (popolari, per altro…), dei sogni e incubi che, appunto, sono solo tali; di manie e desideri così scandalosi e scandalosamente silenti? Perché parlare ancora di demoniaco e occulto, di blasfemia e redenzione, di purezza e Bene; insomma, di religione, in tempi in cui tutto ciò non ha più senso per il gusto e per la sensibilità del moderno, che, anzi, si è rifugiato nell’uso burlesco e giocherellone di quelle immagini, di quelle brame, di quei riti e di quelle stesse credenze?

Eppure, se è dalle e nelle forme che il moderno ricava solamente i propri giudizi e i propri piaceri (non esistono il male e la morte lì dove nulla è permesso…), allora mostriamo un attimo lo scenario generale della pellicola, che non pare poi distaccarsi troppo dalla nostra umanità:

una città nella Germania che, seppur non realmente esistente, riesce comunque a rappresentare un luogo, una nazione e un’epoca di enorme fermento e fiducia: quello della fine della prima rivoluzione industriale, della fioritura delle classi agiate borghesi e de loro tono-di-vita; ma anche del progresso e, in particolare, della fede della e nella scienza e nello sviluppo della tecnica e di tutti i suoi agi.

Ma oltre alla veduta della bella e beata città e sulla sua vita, altre due sono le viste che abbiamo su questo (nostro) mondo:

i paesaggi rurali, isolati, selvaggi e antichi delle periferie di un impero, quello austriaco, e più precisamente nelle periferie delle regioni di Boemia e della Transilvania; luoghi simbolici, oltre che per il film e il genere, anche per “l’inconscio collettivo” che hanno generato (e che rigenerano sempre) nelle nostre menti e nei nostri animi Luoghi dove persino le leggende si perdono nell’oscurità dell’incredibile e di un mai-morto passato che, nella paura e consapevolezza degli abitanti (di qualsiasi specie…) di quei luoghi è sempre e per necessità tenuta viva; e qui passiamo al terzo occhio da cui vedere il tutto.

Ritratti paesaggistici dell’oscuro, indelebili forme e suoni di profondità mai sopite nella e dalla mente e spirito umano; cieli scuri e notturni, presenze sovrumane ma anche più naturalmente-mistiche: non solo divinità lucenti e/o crepuscolari, ma anche i semplici gatti e i fiori e i suoni del tutto fanno si che l’ambiente e il mondo stesso si contorcono e disvelano nella loro intima realtà: quella dell’incerto, del mistero, del terrore, della morte. Poi i manieri e i castelli abbandonati dall’uomo – ma non dagli esseri che sempre lo rendono timoroso nel bene e nel male; o ancora, ospedali, celle e cimiteri, in cui la comunione fra l’uomo e l’orrore divino giunge al suo apice e alle sue interiora.

È qui, con-e-in-tutti questi elementi, che questa storia e rappresentazione ha inizio.

Dopo aver raccolto e raccontato tutti i principali elementi di giuoco, contrasto e rappresentazione, presenti all’interno del film, è venuto ora il momento di dare una risposta alle domande poste all’inizio dello scritto e di cercare di dare una più stretta interpretazione dei fatti, dei simboli, delle presenze-assenze e, dunque, della natura-rappresentata-nella-pellicola.

Partendo prima dalla seconda domanda che ci siamo posti, possiamo affermare che era ed è necessario parlare di questo Nosferatu, del nostro Nosferatu, per via di due principali motivazioni: la prima è che anche la tecnologia ha una sensibilità tutta sua, un suo pudore e una sua trasgressione, un modo di esprimere le cose, i concetti, le immagini e anche le nostre convinzioni e i nostri richiami. Così, se il primo omonimo film ha tipi di sfumature, di credenze, di segni e possibilità legati alla seconda metà del ’900 e ancora abbastanza fresca delle influenze dei secoli precedenti, la pellicola del nostro secolo XXI ha ben altre cose da dire – poiché l’estetica va oltre i significati, anzi, è la forma che plasma la qualità e la quantità dei contenuti. Al di là dei soli effetti grafici e sensoriali, la miglior qualità audio, video, di “giochi” possibili da fare (come un miglior utilizzo dei chiaroscuri, delle angolazioni più dinamiche, etc.) permettono tanto ai registi quanto agli spettatori di fondare nelle loro coscienze e inconsci, nelle sensazioni stesse e, al contempo e quasi paradossalmente!, nella sublimità delle visioni e delle immagini proposte, una sorta di abbandono e di elevazione-decadimento del proprio Sé, della propria determinazione e, soprattutto, del distacco che sussiste fra loro e il film.

Sia il regista e sia lo spettatore, nella nostra epoca cinematografica, non sono più qualcosa di distinto ed entrambi non si distinguono più dal film che creano e in cui si immergono: l’epoca della cinematografia come arte ancora composta da capriate e parti di antiche basiliche e templi pagani è terminata; l’epoca della recitazione è finita; il tutto prende le pieghe non già di un maggior realismo o, al contrario, di un maggior uso dell’immaginazione. Oggi tutto ciò, insieme al cinema stesso, non sussiste più concretamente: è lo svuotamento ciò che più contraddistingue la post e la meta-modernità, il senso non tanto del vuoto, quanto invece del corpo che deve “perdere i suoi organi” (deterritorializzare, diceva qualcuno…); dello spirito, delle carni e della ragione che si trovano così ad affrontare, a creare e a immaginare un mondo e delle realtà che sussistono non negli equilibri, nelle armonie e nella limitatezza-essenza delle cose, bensì che giacciono nell’incosciente presenza della Morte e della Paura e, al contempo, nell’assenza di ogni limite e vincolo. Insomma, un Thanatos e un Prometeo laici portati alle loro estreme conseguenze e che, da qualunque parte li si voglia vedere e amalgamare, non hanno comunque la possibilità di formare un Principio, una sorta di nuova Episteme.

Una nuova epoca di oscurantismo razionale; l’appagamento del sublime e di un super-ego che rigettano solamente il concetto della Morte per abbracciare quello del consumo, del calcolo, dell’agire, persino della fragilità e piccolezza dell’uomo nella vastità e “terribilità” del Cosmo-Caos; ma il fatto della Morte… esso non ha più posto nella società e cultura della fine degli sforzi, delle perdizioni e dei dubbi – sì, anche di questi, poiché si può ritenere dubbiosa e critica una società in cui non vien fatto esistere l’ignoto?

E quindi diversa è l’oscurità del credente e dell’alchemico, ma se il primo si appella ancora a un Uno e a una Moltitudine formali, il secondo invece non fa appelli, non chiede e non prega per nulla, considera persino Dio come una parte del Tutto – di quel Tutto che è al di là anche del Bene e del Male… “Angeli e demoni proteggeteci”.

Passiamo così alla seconda motivazione: essa riguarda il fatto che, riprendendo anche ciò che è stato detto in precedenza sulla sensibilità della tecnologia, allora ciò varrà anche per quest’opera e per questa nostra epoca; ma non solo come rappresentazione dell’epoca vigente nei suoi tratti più tipici, ma anche come fine ribaltamento degli stessi, come rito di riabilitazione dei riti e dei miti o, persino, come propugnatore di forze e di un avvenire che ancora deve palesarsi ma che è già in atto. E il ritorno è sempre alla triade: Uomo, Uno, Assoluto; l’uomo in rivolta, la tragedia delle divinità e l’occhio scrutatore e la mano inflessibile del divenire.

Ora, possiamo passare alle altre due domande, alle quali possiamo rispondere in modo unico.

Anche in questo caso, sono altri i fattori che ci possono spingere a interessarci alla creatura di Robert Eggers, e per comprenderli al meglio possiamo servirci di un’acuta intuizione di pop-philosophy memoria: non applicare la teoria all’arte, ma estrarre dall’arte la realtà stessa delle cose.

“Questa è una forza più potente del male: è la Morte stessa”, e già molto prima di questa frase si può delineare la presenza-assenza della Morte: nelle prime scene del film, quelle in cui Ellen racconta del proprio sogno a Thomas; o un’altra in cui, internato in una cella del modernissimo ospedale di Wisborg, il signor Knock descrive, con delle immagini-simbolo, Nosferatu, definendolo un essere che è destino, infinità, asfissia, divoramento…Infine, l’ultima emblematica scena, l’atto sacramentale e profano fra Ellen e Nosferatu.

Leitmotiv… che prendono però la forma (e quindi l’esistenza) di un rituale perpetuo dell’umanità e che richiede delle eccezionali vittime-simbolo sacrificali per ricomporre una sorta di ordine e per, al contempo, trasgredirlo. In questo caso, l’erotismo descritto da Bataille nel suo omonimo libro non è incarnato nell’atto di puro consumo fra la giovane Ellen e il vampiro Nosferatu, bensì in ciò a cui esso conduce e la funzione che svolge: arrivare a morire per ritornare alla Morte stessa, per placare un ciclo fra tanti di perturbamento e di ricostituzione della normalità e dei patti fra gli uomini, l’ignoto e l’oscuro.

Così anche Ellen non è solo una povera disperata o una martire o, come le disse il dottor Franz, una sacerdotessa di Iside; Ellen è essa stessa Madre, colei che deve soffrire dolori e sforzi più grandi dell’umano e del divino morire. Ellen, è vero, non ha sofferto come gli uomini poiché non era parte del loro mondo; non ha sofferto come Cristo poiché non è morta per i peccati e gli errori degli uomini; lei non è nemmeno realmente morta, il suo è stato un passaggio, l’ascensione finale a quel luogo che sempre le è appartenuto: la Vita.

Così, Ellen è al contempo Iside che porta e mantiene la pace e la bellezza fra gli uomini; la Madonna che piange il Figlio morto fra le braccia; il Ciclo dell’esistere che si fa carne e spirito, bestia ed etereo.

Ivan Branco, Pangea-New, 03/03/2025 – Ecco perché è ancora necessario parlare di “Nosferatu”